Il punto sulla Serie C (di Ivan Cardia)

07.09.2020 11:00 di  Roberto Krengli  Twitter:    vedi letture
Fonte: tuttoc.com
Ivan Cardia
Ivan Cardia

Gli stadi restano chiusi, almeno fino al 30 settembre. Per comodità e pigrizia, ma soprattutto perché i concetti rimangono quelli, inizio col riproporvi delle righe scritte per TMW. Un breve elenco di tutte le cose inopportune che possiamo fare. Tranne andare allo stadio. In ordine sparso, possiamo: andare al supermercato. Al ristorante e al cinema. In un negozio, dal parrucchiere e dall’estetista. Come clienti o come lavoratori. In fabbrica. In discoteca no, anzi sì, purché non si vada lì per ballare. Ma la musica c’è comunque e quindi alla fine possiamo danzare gomito a gomito. Possiamo giocare a calcetto. Sudare in palestra e in piscina. Sbuffare al teatro e dimenarci a un concerto. Possiamo accalcarci in autobus, treno, aereo, metropolitana, nave. Sgomitare al centro commerciale. A scuola ancora non è detto che si possa entrare, all'università pare di sì. Possiamo stringerci per l'aperitivo e sederci per un caffè. Andare in spiaggia, a un palmo di mano dal vicino di ombrellone, anche senza conoscerlo. In montagna per sciare chi lo sa, ma perché l'industria del turismo estivo può ripartire e quella del turismo invernale no? Possiamo fare una lunghissima serie di cose che sarebbe meglio non fare.

Le possiamo fare perché altrimenti non sapremmo come andare avanti, e quindi lo Stato ha chiuso un occhio qui e lì. Senza permettere ma senza vietare più di tanto. Alle Regioni, che infatti sono l’ultima frontiera anche qui, il compito di rischiare le riaperture. Alla fine della fiera, tutte queste cose possiamo farle. Tranne andare allo stadio: è inopportuno. Come se non si potesse regolamentare l’ingresso dei tifosi, prevedere sanzioni e un rigido sistema di controlli per chi viola il distanziamento sociale. Perché proibire è più semplice che far rispettare le proprie regole. Come se diecimila persone, in un impianto da quarantamila, non avessero spazio a sufficienza per tenersi lontani l’uno dall’altro. E le società che vivono anche grazie agli incassi della domenica ? Hanno meno diritti di ristoranti, bar, cinema, negozi e compagnia danzante. O almeno di tutti coloro tra questi che esercitano lontano dallo stadio. Che rimane chiuso, mentre nel resto della città siamo in fila alla cassa uno accanto all’altro. Eppure sarebbe inopportuno.

Ci siete ancora ? Bene, quelle righe arrivavano dopo che il presidente del Consiglio aveva definito inopportuno riaprire gli stadi. Alle parole sono seguiti i fatti, perché il DPCM in vigore da oggi proroga fino al 30 settembre la validità delle norme previste in quello di inizio agosto. E quindi gli stadi del calcio restano chiusi a doppia mandata. Con un paradosso di fondo, tanto per cominciare, perché proprio il DPCM dell’8 agosto prevede che sia “consentita la partecipazione del pubblico a singoli eventi sportivi di minore entità, che non superino il numero massimo di 1000 spettatori per gli stadi all’aperto e di 200 spettatori per impianti sportivi al chiuso”, per poi imporre le porte chiuse nello sport di alto livello. Dato che lo stato dell’arte è confermato, ne consegue che in questo settembre potremmo invitare qualche centinaio di tifosi per assistere alle accese sfide del nostro torneo dopolavoro, ma Roma-Juventus (per fare un esempio) si dovrà giocare senza pubblico. Perfetto.

L’opportunità è poi ben altra questione. Perché la sensazione è che, come accaduto nei momenti di maggior incomprensione comunicativa, si continui a immaginare il calcio come un pallone che, romanticamente, rotola tra le pedate di 22 scapestrati in calzoncini e maglietta. Al netto del fatto che il pallone con gli spalti vuoti abbia un fascino prossimo allo zero, ovviamente non è più così, e con questo sport, che la cosa possa piacere o meno, vivono tanti lavoratori in giro per il nostro Paese. La partita della domenica non è solo l’occasione per qualche tifoso di distrarsi, ma spesso e volentieri anche la principale occupazione lavorativa di tanti professionisti, dal titolare del bar dello stadio al cameriere del ristorante lì fuori, passando per gli steward, gli albergatori e una lista così lunga che ci vorrebbe qualche ora per completarla. Ultime ma non ultime, le società di calcio. Che, soprattutto nel calcio minore ma mica tanto (cioè quello di B e C, che a livello generale resta d’élite perché professionistico), in questi mesi annaspano e in un botteghino anche ridotto vedrebbero una discreta boccata d’ossigeno. Invece niente da fare, dovranno aspettare. Il punto non è neanche l’egotistica pretesa di fregarsene dell’esistenza di un virus e di una pandemia. Anzi: chi scrive, per esempio, ha sempre sostenuto che, a proposito di cose opportune, fosse più ragionevole non completare la stagione 2019/2020. E se domani ci fosse la necessità di una nuova chiusura sarebbe giusto prevederla. Dato che oggi possiamo fare tutte le cose di cui sopra, ma non andare a seguire una partita, che a certe condizioni sarebbe molto più sicura di andare a fare la spesa, la restrizione è al momento incomprensibile e ingiusta. In soccorso dello sport che più amiamo, potrebbero intervenire le regioni: molte stanno studiando da tempo come aggirare il problema. Ancora: per il calcio amatoriale possono stilare protocolli ad hoc, per il professionismo non è prevista questa possibilità in via esplicita. La disciplina locale andrebbe ad ammorbidirne una statale, e non è detto che possa succedere senza conflitti politici. Ma da Roma spesso e volentieri, negli ultimi mesi, hanno chiuso un occhio per molto meno. O forse no.

Se nei rapporti con la politica il calcio è unito, tutt’altro si può dire di quel che succede al suo interno, soprattutto in Serie C. Da almeno un mese discutiamo delle liste a 22 giocatori, senza possibilità di addivenire a una soluzione e si direbbe neanche un confronto, se l’AIC è ormai prossima allo sciopero dopo aver proclamato lo stato di agitazione. Tra gli addetti ai lavori, non piacciono a nessuno: ai calciatori che vedono a rischio il proprio posto di lavoro e ai direttori sportivi che trovano limitata la propria libertà operativa. Breve inciso: dato che vendere è più difficile che comprare, si potrebbe scoprire in questa situazione la differenza tra quelli bravi e quelli meno bravi, ma non è questo il punto. Sull’altro lato della barricata, la Lega Pro e i club, che questa riforma l’hanno votata perché, come si diceva poc’anzi, sono con l’acqua alla gola. E preferiscono autoimporsi una limitazione del genere, rispetto allo spiegare alla piazza che domani Tizio non arriverà perché mancano i soldi: è molto più semplice da dire che lo impediscono le regole. Ora, il punto è che lo scontro, per quanto acceso, non ha nulla di anormale: il sindacato fa il sindacato e i datori di lavoro fanno i datori di lavoro. Ciascuno tira l’acqua al proprio mulino e non ce ne sorprendiamo. Come spesso succede in questi casi, ciascuno ha la sua dote di ragione. Il combinato disposto con la normativa sul minutaggio, in effetti, rischia di tagliare oltre il ragionevole gli spazi per i calciatori over, con un taglio molto più netto di quello che sostiene la Lega. Ed è vero che, per una novità del genere, sarebbe stato molto più opportuno aspettare un anno di rodaggio. Viceversa, è un dato di fatto che le squadre siano ingolfate da calciatori inutili e inutilizzati, alle volte lì più per marchetta che per altro (non generalizziamo, ma capita). Che un anno di tempo non c’era e che per quasi tutte le società risparmiare sia un imperativo categorico, se non vogliamo rischiarne una moria da qui al 2021, peraltro con la spada di Damocle del virus che pende su di noi. In fin dei conti, più che le liste, iil problema restano i soldi: in questo momento non ce ne sono. Ed è un problema che si può chiamare in mille modi, ma rimane sempre quello.

Ivan Cardia

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