Il punto sulla Serie C (di Ivan Cardia)

15.06.2020 11:00 di  Roberto Krengli  Twitter:    vedi letture
Fonte: tuttoc.com
Ivan Cardia
Ivan Cardia

Un dibattito che non sta in piedi e non fa bene a nessuno. È difficile definire altrimenti la querelle della settimana tra chi sostiene che il campionato di Serie C non dovesse fermarsi e chi invece difende la scelta di dire stop alla regular season.

Basterebbe, per rendersene conto, dare un’occhiata all’estero. Tra i cinque grandi campionati europei, l’unica terza serie a essere ripartita è quella tedesca. In Francia ovviamente il calcio si è fermato in toto, Spagna e Inghilterra hanno seguito, alla fine delle fiera, la strada della Serie C italiana. Al netto della Germania, che vive una soluzione completamente diversa da tutti gli altri Paesi, se si ferma perfino la (più) ricca League One inglese non c’è molto da discutere. La verità è che, in un certo senso, entrambe le tesi sono valide. Fermare i campionati è una sconfitta, vero. Ma non è colpa di nessuno, se non del virus e della situazione che ne è derivata.

Adesso “godiamoci” questi playoff arrivati un po’ così. Per ricchi: chi scrive non è particolarmente entusiasta di questa soluzione, né tantomeno ovviamente dei playout. In un quadro di sistema, le retrocessioni si potevano francamente evitare, non si può dimenticare che parliamo della cerniera tra professionismo e dilettantismo. Sul tema, torneremo a breve. Alla fine, in un modo o nell’altro, anche senza entusiasmi, sarà comunque bello celebrare il pallone che torna in campo. La questione da risolvere ora è quella dei contratti. Dalla Lega Serie A è arrivata l’indicazione che il rebus sia vicino alla soluzione. Fatti salvi i contratti che scadono il 30 giugno. In altre parole: nulla è risolto, serviranno contrattazioni individuali. Servirà, in ultima analisi, il buonsenso di tutti: fin qui non sempre c’è stato, ma anche nelle aule di giurisprudenza insegnano che è un criterio chiave per dirimere qualsiasi questione.

Playoff a parte, c’è da guardare al futuro. Sul quale si gioca una battaglia anzitutto politica: la campagna elettorale è quella che è, ma sarebbe opportuno tenerne fuori l’organizzazione del calcio del futuro. Se solo fossimo capaci, qui l’abbiamo scritto già varie volte, di dar vita a una vera e propria costituente del pallone, probabilmente non ci vorrebbe molto. La chiave di volta, ma anche la chimera, è il semiprofessionismo: tutti ne parlano, nessuno sa davvero come impostarlo. In Italia c’era fino al ’78, ma si sostanziava in meno controlli. Oggi non può essere così, almeno questa lezione l’abbiamo imparata. Snellire i contratti senza renderli facilmente aggirabili, alleggerire i costi (soprattutto fiscali) senza per questo rendere più blande le verifiche sul corretto andamento societario. Sono i traguardi ai quali, in qualche modo, bisogna puntare. Più della B a 40 squadre, una riforma che sarebbe meglio tenere nei cassetti e non vada oltre, servirebbe un ritorno alla C2: il vero errore è stato eliminarla. Oggi in C vi sono 60 società con una disomogeneità incredibile. Il monte ingaggi delle big è di un altro pianeta rispetto a chi lotta per non retrocedere. Che siano nella stessa categoria, in effetti, non ha molto senso. A, B e C, professionistiche, da 20 squadre, poi C2 da 40 (due gironi) semiprofessionistica e infine la D. Non è una nostra proposta, è quella che convince di più chi vi scrive. Ci sarebbe un cuscinetto e ci sarebbero più squadre che lottano per vincere, anziché per vivacchiare. Passa tutto, però, da un riforma globale: abbiamo una legge sul professionismo di 39 anni fa, una legge sui diritti tv che non piace a nessuno. Non abbiamo una normativa convincente sugli stadi (e più in generale sull’impiantistica sportiva) e il professionismo femminile è ancora una pia speranza. Se persino dopo questa crisi non ci si siede tutti al tavolo, dimenticando le rispettive convenienze, allora non abbiamo davvero imparato nulla.

Ivan Cardia

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