Il punto sulla Serie C - Annullare la stagione o ripensare il calendario (di Ivan Cardia )

14.04.2020 11:00 di  Roberto Krengli  Twitter:    vedi letture
Fonte: tuttoc.com
Ivan Cardia
Ivan Cardia

La premessa è la stessa di una settimana fa, è la solita. Senza calcio, siamo tutti un po’ più poveri. A partire da chi vi scrive, ci manca il pane quotidiano. Il calcio è un circo da 5 miliardi di euro all’anno, muove capitali e persone come poche altre industrie (forse nessuna) all’interno del nostro Paese. Prendete i quasi 1,5 milioni di tesserati, e iniziate a moltiplicare, perché chi pensa che sia solo quello che si vede ha sbagliato. È troppo grande per fermarsi davvero, perché fermandosi imploderebbe. Però è anche uno show, che per definizione ha bisogno di spettatori. E non è sempre vero che the show must go on. 

La scelta pressoché univoca di tutti gli altri sport di squadra è chiara: punto e a capo. Stop, si resetta, perché siamo andati troppo oltre e ancora non scorgiamo l’orizzonte, la svolta. Il calcio no. Ha la sua specificità, e su questo ha ragione il presidente Gravina. Ma ogni giorno che passa sembra sempre più aggrappato a una pia illusione, a un miraggio che diviene di bollettino in bollettino un po’ più lontano. Vietato arrendersi, sia pure. Ma a un certo punto è il caso di fare i conti con la realtà. 

L’unica posizione seria, ma seria per davvero, non fosse che il pallone vive in una bolla da cui non riesce a uscire, è quella di chi spinge per annullare la stagione. È un’ammissione dolorosa, ma è la realtà che stiamo vivendo ogni giorno a essere tale. Mentre il governo ancora pianifica la fase 2, le società di Serie A già pensano alle visite mediche, al 4 maggio, alla ripresa degli allenamenti. C’è un protocollo sanitario, c’è l’idea di iniziare a correre e non fermarsi praticamente più. Da soli, perché il tutto dovrebbe avvenire a porte chiuse. È davvero questo, il calcio di cui abbiamo bisogno ?

Lascio perdere l’incertezza sulle date. Nessuno, nemmeno Giuseppe Conte, sa davvero se il 4 maggio l’Italia ripartirà o meno. Ce lo auguriamo tutti, per una lunga serie di ragioni, ma dall’8 marzo in poi c’è chi vive in standby e c’è anche chi vive in trincea. E non decidiamo noi, ma questo nemico invisibile. Ammettiamo che si possa ripartire davvero in quella data. Potrebbero, forse, farlo i club di Serie A. Per ora non sono attrezzati nemmeno loro, a dirla tutta. Ma soldi ne hanno, potrebbero farcela. Dalla Serie B in giù, tutt'altro discorso. Il protocollo sanitario ipotizzato non è nemmeno utopistico: è semplicemente irrealizzabile. Guardiamoci in faccia, guardiamo la nostra realtà: si parla di strutture che non abbiamo, si prevedono costi che non abbiamo i soldi per sostenere. Chi lo immagina applicabile alla Serie C parla dello stesso campionato che nelle cinque stagioni precedenti si è svolto solo in due occasioni a pieno organico ? Così, per curiosità. 

Le porte chiuse, poi. Nell’incertezza generale, il governo le immagina necessarie almeno fino a gennaio. È uno scenario devastante di per sé, non è chiaro perché il calcio abbia così tanta fretta di vederlo realizzato. Per tre ragioni. Una più banale, potrei dire di cuore: il calcio è uno show, si diceva poco fa. È uno spettacolo. Non esiste uno spettacolo senza spettatori: non ha senso. Anche per le tv: fino a pochi mesi fa parlavamo di quanto fossero tristi i nostri stadi sempre vuoti, anche per le riprese. Tutti abbiamo ancora nelle orecchie Juventus-Inter giocata come se fosse scapoli contro ammogliati: il calcio deve interrogarsi su quale sia la sua ragion d’essere, a chi sia destinato. Altrimenti rimarrà drammaticamente solo. La seconda è di portafogli: i tifosi allo stadio non sono un accidente, una variabile esterna all’equazione. In molti casi sono linfa vitale, proprio dal punto di vista economico, perché le società possano andare avanti. La terza, ma forse dovrebbe essere la prima, è di salute: porte chiuse un corno. Giocare senza pubblico comporta la presenza di almeno un centinaio di persone allo stadio: magazzinieri, steward, polizia, cameraman, raccattapalle, medici, paramedici, giornalisti, fotografi, e chi più ne ha più ne metta. Mettiamo anche loro in ritiro forzato per tre mesi? E se poi, Dio non voglia, qualcuno dovesse risultare nuovamente positivo? Ci si fermerebbe di nuovo? Ma che figura ci faremmo ? Ci si obietterà che sono discorsi pessimistici, che il virus lo supereremo, che i rischi saranno diminuiti o azzerati. Ce lo auguriamo tutti, ma per ora non è così e non possiamo far finta che lo sia. E non menziono le tempistiche. L’idea di giocare ogni tre giorni. Poi una breve sosta. Poi si riparte. Infine, l’Europeo. È un tour de force: pochi mesi fa parlavamo di due crociati saltati perché all'Olimpico, uno degli stadi più importanti d’Italia, si è giocato per due giorni di fila. Immaginate andare in campo ogni due-tre giorni su uno dei disastrati campi delle nostre province. I calciatori possono rischiare qualcosa in più, si dice. Lavorano gli operai nelle fabbriche, perché non loro? Certo. Ma intanto, a rischiare sarebbe anche il magazziniere che guadagna magari 1.200 euro al mese. In secondo luogo, nelle fabbriche gli operai ci lavorano perché sono necessari, indispensabili. Il calcio è necessario ?

La Serie C non ha alternative. Molti presidenti lo dicono già. Ma mi sembra che il calcio italiano, o meglio europeo, non ne abbia molte di più. E prima lo capirà, prima potrà iniziare a programmare il suo futuro. So benissimo che non ci si può fermare davvero, che la macchina ha bisogno di essere tenuta in movimento: c’è da progettare insieme come tenerla attiva. Annullare la stagione o chiuderla qui ? Meglio la prima, ma anche la seconda è una strada percorribile. Entrambe porterebbero a discutibili vicende giudiziarie, ne sono ben consapevole: in parte mi sono già espresso, in parte ci tornerò a breve. L’alternativa più seria? Ripensare il nostro calendario: finiamo la stagione attuale entro dicembre 2020, poi ragioniamo di anno solare in anno solare. Sarebbe una rivoluzione, ma ho l’impressione che questo virus cambierà tanti aspetti della nostra vita, e questo non sarebbe il più sconvolgente. Non si può fare nulla di tutto ciò senza la UEFA, ovvio. Ma bisogna far aprire gli occhi, dalle parti di Nyon, sul mondo che ci circonda. In Belgio hanno avuto un coraggio di questo tipo: l’esempio è dato. Non si può fare tutto questo senza i soldi della pay tv, è chiaro. Ma si può discutere con le varie emittenti, perché tutti hanno interesse ad andare d’accordo. Mal che vada, ricordare loro che anche in questa fase ci sono migliaia di abbonati che continuano a pagare il canone e gli highlights del campionato bielorusso sono simpatici, ma fino a un certo punto. Cosa ci si inventa da qui a settembre? Ce lo dovremo inventare comunque. Dateci un mercato più lungo: quello si può fare in smart working. 

Arriviamo alle polemiche, ai temutissimi ricorsi. Fosse la prima volta. In ogni caso, se la decisione di fermare tutto, che sia annullamento o convalida della stagione con promozioni e retrocessioni, arrivasse ora, ci sarebbe tutto il tempo, da qui a settembre, per vederli espletati. La giustizia sportiva, quando vuole, sa avere tempi piuttosto rapidi. Dalla Serie C in giù, probabilmente dalla Serie B in giù, non c’è quasi nessuna vera possibilità di ripartire: meglio deciderlo ora, e chi vorrà si darà battaglia legale. Sarebbe un suicidio a livello di immagine? Certo che sì. Ma, premesso che di questi tempi, tra asini e bestie varie, il pallone non sta comunque dando grandissima prova di sé, è qui che il calcio italiano, e lo ripeto ancora oggi, si giocherebbe la sua credibilità. E chi promette battaglia per un punto, una promozione, una retrocessione, sbaglia in partenza. Ne ha parlato anche Galliani di recente. Ecco: davanti a un dirigente come Galliani, per carriera, caratura, bravura, esperienza, devo solo togliermi il cappello e mettermi in un cantuccio, dovrei solo dire che ha ragione. Ma in questo caso ha detto una cosa sbagliata e anche grave. Il Monza, non ci sono dubbi, ha tutto il diritto di vedersi promosso in Serie B. Come la Reggina, un po’ meno il Vicenza, sicuramente come il Benevento in A: sarebbe paradossale non certificare quanto conquistato con merito in tre quarti di campionato. Ma, per un Monza che ha questo sacrosanto diritto, e con esso altre 3-4 realtà professionistiche, ci sarebbero molti più casi e ricorsi cristallizzando i risultati attuali. Comunque vada a finire, e detto che l'idea di giocare "nell'anno solare", prospettata proprio da Galliani, non è affatto peregrina ma anzi risolverebbe molti problemi, qualcuno potrebbe dover mandare giù un rospo difficile da ingoiare: se lo farà senza battaglie legali, senza promettere guerra fino all’ultimo cavillo, ne guadagnerà in ogni caso a livello di immagine. Avrà tempo per rifarsi, tanto certi risultati non si costruiscono per caso, ma per capacità. Se sceglierà la via delle aule di tribunale, dovrà spiegare ai suoi tifosi che una promozione vale più di tutto quello che ci sta succedendo. Vincerà la battaglia legale, forse, ma ne avrà persa un’altra più importante. 

P.S. Avrei voluto dedicare qualche riga alle solite diatribe sugli stipendi dei calciatori. Alla cassa integrazione che è necessaria e non si capisce perché se un ragazzo di 25 anni guadagna 1.400 euro al mese per dare calci a un pallone debba essere trattato dallo Stato come un lavoratore di serie b. Alle astrusità che si leggono in giro, su tutte l’impossibilità sopravvenuta di prestazione, che basta aver superato diritto privato al primo anno di università per sapere sia prevista a tutela del prestatore e non del datore di lavoro. E che in ogni caso non è invocabile seriamente perché la prestazione non è solo giocare la domenica, altrimenti da domani tutti i calciatori potrebbero smettere di allenarsi, rifiutare la videochiamata su Zoom o simili, rimpinzarsi di dolci, scrivere sui social quello che gli pare e rispondere a qualsiasi intervista di qualsiasi giornalista senza dover passare dagli uffici stampa. Avrei voluto ricordare che in tutto questo da più di un anno la politica italiana ha tirato una gigantesca e incomprensibile zappa sui piedi allo sport, al calcio e all’informazione sportiva, vietando le pubblicità delle scommesse mentre ancora oggi nei tabaccai si può continuare a giocare alle slot machine. Per fortuna, sugli stipendi, pare che sia arrivato un po’ più di sereno, almeno in Serie C: merito di Lega Pro e AIC, i cui vertici, in tutto questo caos, sono tra i pochi ad aver mantenuto, o almeno cercato di mantenere, la barra a dritta. Di tutto questo, comunque, avremo tempo per parlare ancora, anche in futuro. 

Ivan Cardia 

-